Atti dei convegni

13 Settembre 2023

2022 – STUDIO SULL’ANTIBIOTICO SENSIBILITÀ DI BATTERI PATOGENI ISOLATI DA CANARINI E PAPPAGALLI

L’antibiotico resistenza è una delle problematiche di maggior impatto per la salute pubblica. L’utilizzo imprudente o errato di antibiotici porta alla selezione di popolazioni batteriche resistenti o multiresistenti, particolarmente difficili da debellare in caso di infezione.
Difatti il Regolamento UE 429 del 2016 in tema di malattie animali trasmissibili fa esplicito riferimento all’antimicrobico resistenza come minaccia alla salute umana e animale sottolineando l’importanza di tutte le misure volte contenerla come, ad esempio, la riduzione dell’utilizzo di antibiotici. Nell’ottica One Health, l’uso dell’antibiotico, nel settore zootecnico ed anche in quello degli animali da compagnia, è stato gradualmente ridotto nel tempo a favore di un utilizzo più consapevole e basato su dati oggettivi ottenuti in laboratorio. A questo proposito, la possibilità di avvalersi di tecniche laboratoristiche come la misurazione della concentrazione minima inibente (MIC) consente ai liberi professionisti la formulazione di una terapia appropriata ed efficace, riducendo conseguentemente il rischio di sviluppo di antibiotico resistenza. Da diversi anni presso i laboratori dell’Istituto Zooprofilattico delle Venezie, l’analisi della MIC si è rivelata un valido strumento per valutare la sensibilità agli antibiotici dei ceppi batterici coinvolti negli eventi morbosi delle differenti specie animali. Considerato che gli uccelli ornamentali rappresentano la quarta categoria pet maggiormente diffusa in Italia dopo cani, gatti e pesci, abbiamo deciso di valutare l’antibiotico sensibilità di batteri patogeni isolati da canarini e pappagalli durante il periodo 2017-2021.

13 Settembre 2023

2022 – UTILIZZO DELL’ASSOCIAZIONE ATOVAQUONE/PROGUANILE CLORIDRATO PER IL TRATTAMENTO DELLA MALARIA AVIARE NELLE CIVETTE DELLE NEVI (BUBO SCANDIACUS)

La malaria aviare è una delle malattie emergenti nell’ambito dell’avifauna selvatica, che potrebbe avere un impatto negativo sul benessere delle popolazioni di uccelli selvatici detenuti in cattività.
La malattia è sostenuta da parassiti appartenenti al genere Plasmodium (Apicomplexa: Haemosporida), ed è trasmessa da vettori. Sebbene diverse specie di zanzare appartenenti alla famiglia Culicidae siano ritenute vettori del parassita, Culex pipiens sembrerebbe essere la specie maggiormente coinvolta nella trasmissione dei plasmodi aviari e nel loro ciclo biologico [1-2]. Anche alla luce dei cambiamenti climatici, che favoriscono la diffusione e la persistenza dei vettori, la malattia ha diffusione pressoché ubiquitaria, ad eccezione per le regioni artiche ed antartiche [3-4].
Ad oggi, si ritiene che siano almeno 55 le specie di plasmodi in grado di indurre la malaria aviare negli uccelli [4]. Tra queste, Plasmodium relictum è la più diffusa [5]. Infatti, sono circa 220 le specie di uccelli che possono essere infettate da uno dei 5 principali genotipi di questo parassita, ovvero SGS1, GRW11, GRW4, LZFUS01 e PHCOL01 [4].
Gli uccelli infetti possono manifestare un quadro clinico ampio e variegato, che può variare in funzione della specie colpita e di una serie di fattori, alcuni dei quali tuttora sconosciuti [6-7].
Quale sia l’impatto reale della malaria aviare negli uccelli selvatici liberi in natura non è ben noto. Sono scarsi, infatti, i lavori scientifici di tipo epidemiologico sull’argomento. Ben diversa sembra la situazione nei centri di recupero o negli zoo, dove è noto che la circolazione del parassita può influire pesantemente sulla salute degli animali con grave impatto sulla qualità della vita [8]. La crescente diffusione della malaria aviare e la conseguente attenzione nei suoi confronti [9], ad oggi non hanno determinato la messa a punto di un protocollo terapeutico ben definito di cui sia stata dimostrata l’efficacia a lungo termine. Le informazioni disponibili in letteratura riportano, infatti, una varietà di trattamenti che spesso, però, si sono dimostrati poco efficaci o, in alcuni casi, tossici in alcune specie di uccelli detenuti in cattività [10-11].
In medicina umana, l’associazione farmacologica di atovaquone (A V) e proguanile cloridrato (PG) è tra le più utilizzate nel trattamento della malaria. Entrambe le sostanze sono attive sullo stadio intraeritrocitario del parassita. Nello specifico, l’atovaquone esplica un’azione schizonticida e gametocitocida inibendo il trasporto di elettroni all’interno delle cellule mitocondriali dell’organismo parassita. Il proguanile cloridrato, invece, esplica sia un’azione schizonticida nell’ospite, che di inibitore dello sviluppo delle oocisti all’interno del vettore, andando ad inibire la produzione dei folati necessaria per la sintesi del DNA parassitario. Quest’ultima molecola ha effetto sinergico sull’azione dell’atovaquone, incrementando così l’efficacia del farmaco [12].
Alla luce di tali osservazioni, con il presente studio si è inteso valutare l’efficacia dell’associazione atovaquone/proguanile cloridrato per il trattamento di tre esemplari di civette delle nevi (Bubo scandiacus) affette da malaria aviare, ospitate presso l’Osservatorio Faunistico Regionale della Puglia.

13 Settembre 2023

2022 – CAMPYLOBACTER JEJUNI E CAMPYLOBACTER COLI IN VOLATILI SELVATICI: PREVALENZA E RESISTENZA ANTIMICROBICA

Le attività antropiche inducono sugli ecosistemi effetti spesso negativi, come inquinamento e innalzamento delle temperature a livello globale (Harley, 2011; Supple e Shapiro, 2018). Inoltre, l’attività venatoria, soprattutto se non praticata correttamente, mette sotto pressione le popolazioni di animali selvatici in natura.
L’eccessivo sfruttamento dei terreni agricoli, spesso adibiti a monocolture, ha portato all’alterazione degli habitat naturali. L’uso dei pesticidi in agricoltura porta ad una riduzione della disponibilità trofica per le specie insettivore oltre che a possibili eventi tossici (Sell et al., 2022). Tutti questi fattori comportano l’affluenza di numerosi esemplari selvatici ritrovati in condizioni di difficoltà presso centri di recupero per la fauna selvatica. In tali centri è importante curare gli animali pervenuti ma anche monitorare agenti potenzialmente patogeni per l’uomo, al fine di tutelare il personale impegnato nelle pratiche riabilitative degli animali. Tra i potenziali patogeni che possono essere veicolati dagli animali vi sono Campylobacter (C.) jejuni e C. coli che, nell’uomo, sono responsabili di sindromi gastroenteriche con dolore addominale, diarrea, nausea e febbre (Skirrow e Blaser, 2000; Moore et al., 2006) ma anche forme extra-intestinali come batteriemia, meningite, pancreatite, colecistite, nefrite, miocardite, epatite (Blaser e Engberg, 2014). Inoltre, la sindrome di Guillan-Barrè, grave patologia neurologica (Yuki, 2012) e una sua variante, la sindrome di Fisher Miller (Heikema et., 2013), la sindrome di Reiter, una spondiloartropatia (Blaser e Engberg, 2014) sono tutte forme autoimmuni associate a C. jejuni. Sebbene il pollame sia uno dei serbatoi più importanti di Campylobacter e la campylobacteriosi nell’uomo sia legata prevalentemente al consumo di carne di pollame contaminata (Sahin et al., 2015), gli animali da compagnia (Dipineto et al., 2017) e i selvatici possono esserne portatori (Jurado-Tarifa et al., 2016; Molina-Lopez et al., 2011). Tra le specie selvatiche, Campylobacter è stato identificato in mammiferi selvatici, come roditori, cervidi, cinghiali e procioni, ma anche in volatili sia allo stato libero che ospitati presso centri di recupero. Gli obiettivi di questo lavoro sono stati: (i) indagare sulla presenza di C. jejuni e C. coli tra i volatili selvatici ospitati presso l’Osservatorio Faunistico Regionale della Puglia, e (ii) valutare la sensibilità agli antibiotici dei ceppi isolati.

13 Settembre 2023

2022 – INDAGINI PRELIMINARI SUL RUOLO RIVESTITO DA VOLATILI SELVATICI COME POTENZIALI RESERVOIR DI MICRORGANISMI ANTIBIOTICO-RESISTENTI

In questi ultimi anni l’interesse della comunità scientifica si è rivolto verso gli animali selvatici, volatili inclusi, quali potenziali soggetti sentinella in grado di rivelare il livello di contaminazione ambientale, in particolare del suolo, da parte di batteri veicoli di geni responsabili di antibiotico-resistenza (Bonnedahl e Järhult et al. 2014). V a considerato inoltre che questi animali possono acquisire microrganismi resistenti da diverse nicchie ecologiche e nel caso di alcuni volatili, di diffonderli anche in aree geografiche diverse, vista la loro capacità di ricoprire lunghe distanze in breve tempo attraverso i percorsi migratori (Wang et al. 2017). Molti sono i fattori che contribuiscono alla contaminazione del suolo da parte di batteri/geni della resistenza: acque di scarico provenienti da allevamenti intensivi, discariche e impianti di trattamento delle acque reflue e la stessa fauna selvatica tramite anche l’escrezione fecale (Tardón et al. 2021). Escherichia coli e Salmonella spp. sono considerati alcuni tra i batteri maggiormente responsabili della co-circolazione dei geni di resistenza tra l’ambiente, gli animali e l’uomo in quanto considerate specie in cui la selezione dei geni di resistenza è avvenuta più rapidamente nel corso degli anni, a seguito dell’uso diffuso di antimicrobici (Seiffert et al. 2013). Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare il profilo di antibiotico-resistenza di ceppi di E.coli commensali, l’eventuale presenza di E.coli, E.coli ESBL e Salmonella spp. isolati in volatili selvatici ricoverati presso l’Ospedale Didattico V eterinario di Perugia (Dipartimento di Medicina V eterinaria-DMV).

13 Settembre 2023

2022 – STUDIO IN VIVO DELL’EFFICACIA DI UN SISTEMA DI LAMPADE A UVCA 222 NM PER L’INATTIVAZIONE DEL VIRUS DELLA BRONCHITE INFETTIVA

Il virus della bronchite infettiva (IBV) è un patogeno estremamente importante in avicoltura, responsabile di problematiche respiratorie, renali e riproduttive, a seconda del ceppo virale e della categoria animale coinvolti, con cali di produzione, perdite economiche e predisposizione ad infezioni secondarie (Jackwood & Wit, 2020).
Il controllo della bronchite infettiva è demandato alla vaccinazione, che prevede la somministrazione di vaccini vivi attenuati e talvolta inattivati, a seconda del protocollo e della categoria produttiva (Jordan, 2017).
L’immunizzazione però non garantisce la totale protezione nei confronti di questo virus, proprio per la presenza di varianti, per il coverage vaccinale a volte subottimale della popolazione, per l’estrema facilità di trasmissione e per i contatti molto stretti all’interno dei capannoni. Oltre alla biosicurezza, altri devono essere quindi gli strumenti affiancati alla vaccinazione nella lotta contro questo ed altri patogeni.
La ricerca di soluzioni in grado di abbattere la carica virale e la pressione infettante in ambienti ad elevata contaminazione, ha stimolato la valutazione dell’efficacia delle lampade a UVC nell’inattivazione dei coronavirus. Le lampade a UVC ad eccimeri (222nm) hanno il vantaggio di non essere nocive per gli organismi superiori e sono state già sperimentalmente testate nei confronti di patogeni come il virus dell’influenza aviaria (Welch et al., 2018) e il virus della Porcine reproductive and respiratory syndrome (PRRSV) (Li et al., 2021), con l’obiettivo di sondare uno strumento applicabile sia in ambito veterinario, sia con una visione One Health con applicazione in contesti pubblici.
Questo studio ha valutato l’efficacia di lampade a UVC ad eccimeri (222 nm), nell’inattivare un aerosol contenente IBV e nel prevenirne la replicazione all’interno di un modello di popolazione animale esposta ad un patogeno a trasmissione tramite aerosol.

13 Settembre 2023

2022 – IMPIEGO DEL VACCINO RICOMBINANTE RN1250 PER IL CONTROLLO DELLA MALATTIA DI MAREK: CINETICA VACCINALE ED EFFICACIA IN RIPRODUTTORI PESANTI

La malattia di Marek (MD) è una patologia neoplastica a carattere linfoproliferativo del pollo causata dal Gallid alphaherpesvirus 2 (GaHV-2 anche denominato MDV, che determina ingenti perdite economiche nel settore avicolo in tutto il mondo (Schat e Nair, 2013).
Gli ospiti recettivi si infettano tramite inalazione di particelle virali presenti nei detriti delle cellule epiteliali dei follicoli delle penne desquamate contenute nella polvere ambientale (Carrozza et al., 1973); il virus può permanere vitale ed infettante nelle polveri per diversi mesi (Jurajda e Klimes, 1970).
Negli allevamenti di ovaiole e riproduttori pesanti italiani circolano ceppi ad elevata virulenza (vMDV o vvMDV) in grado di determinare la forma acuta della malattia, caratterizzata da linfomi viscerali (Mescolini et al., 2019).
Le manifestazioni cliniche della malattia vengono tenute sotto controllo dalla vaccinazione con vaccini vivi attenuati che tuttavia vengono definiti “imperfetti” poiché non sono in grado di prevenire l’infezione (Read et al., 2015). I vaccini impiegati più largamente in Italia sono il ceppo CVI988/Rispens (attenuato a partire da un ceppo di campo di GaHV-2) e l’herpesvirus del tacchino (HVT), appartenente alla specie Meleagrid alphaherpesvirus 1, naturalmente apatogena per il pollo.
Recentemente è stato messo in commercio il vaccino ricombinante RN1250 (Prevexxion® RN, Boehringer Ingelheim Animal Health), costituito dal ceppo virale CVI988/Rispens in cui sono state inserite sequenze genomiche del ceppo Md5 (vvMDV) di GaHV-2, e del ceppo RM1 (vMDV); oltre ai segmenti Long Terminal Repeats (LTR) derivati dal retrovirus della Reticoloendoteliosi (REV).
Per valutare la cinetica del vaccino ricombinate RN1250 e verificare l’efficacia di un piano vaccinale che include RN1250, CVI988/Rispens e HVT, è stato svolto uno studio longitudinale di campo in cinque gruppi di riproduttori pesanti. Penne, milze e polveri ambientali sono stati testati mediante protocolli molecolari specifici per GaHV-2 e RN1250.

13 Settembre 2023

2022 – VACCINI O CEPPO DI CAMPO? LEZIONI DALLA VARIANTE 2

L’uso della vaccinazione ha rappresentato una delle maggiori scoperte nella storia della medicina ed è uno strumento fondamentale per il controllo delle malattie, incluse quelle emergenti, di interesse umano e veterinario. Nel corso del tempo nuove tecniche di sviluppo e somministrazione dei vaccini hanno permesso di massimizzarne l’efficacia e la facilità d’uso, minimizzando allo stesso tempo gli effetti collaterali [1]. Tuttavia, alcuni approcci tradizionali, come l’uso di virus attenuati, sono tuttora largamente applicati specialmente in medicina veterinaria, dove fattori economici e pratici giocano un ruolo di primaria importanza. Il virus della bronchite infettiva (IBV) è un ottimo esempio in tal senso, poiché la vaccinazione rappresenta un presidio fondamentale per il controllo della malattia da esso causata ed è quindi ampiamente utilizzato a livello mondiale. In particolare, i vaccini vivi attenuati sono quelli maggiormente applicati, in quanto garantiscono lo sviluppo di una forte immunità locale, umorale e cellulare, quantomeno nei confronti di ceppi geneticamente simili al vaccino. Inoltre, il loro sviluppo è relativamente semplice, il che permette di aggiornarli e introdurne di nuovi al variare dello scenario epidemiologico, fatto particolarmente frequente in funzione dell’elevato tasso evolutivo di IBV . Infine, la capacità di replicare ne permette una più agevole somministrazione in condizioni di campo, in incubatoio o in allevamento [2, 3]. L’escrezione del virus vaccinale può anche contribuire a migliorare il coverage complessivo in popolazioni vaccinate in modo sub-ottimale. D’altra parte, questi vantaggi comportano degli inevitabili effetti collaterali. L’attenuazione implica la selezione di varianti caratterizzate da una minor virulenza. Tuttavia, i virus a singolo filamento di RNA come IBV sono caratterizzati da un elevato tasso di mutazioni, indicativamente una mutazione ad ogni replicazione del genoma virale [4]. Non sorprende quindi che diverse varianti possano emergere sia in vivo che in vitro, come già dimostrato in precedenza anche nel caso di vaccini vivi attenuati [5]. Ne consegue che il processo di attenuazione sia spesso scarsamente prevedibile e controllabile e che alcune sottopopolazioni virali con una virulenza residuale potrebbero mantenersi, venendo poi selezionate durante la replicazione negli animali. Inoltre, anche in assenza di questo fenomeno, non vi è alcuna garanzia nei confronti di fenomeni di reversione a virulenza, in particolare qualora si instaurino “rolling reactions” in popolazioni animali solo parzialmente vaccinate. Entrambi questi fenomeni potrebbero esitare nell’emergere di focolai di malattia indotta dal vaccino.
La capacità del virus di replicare e diffondere fra gli animali e gli allevamenti ha anche importanti implicazioni dal punto di vista epidemiologico. Il riscontro di sequenze “simil-vaccino” in episodi di malattia può essere riconducibile a diverse cause: 1) riscontro accidentale del vaccino in presenza di altre cause di malattia, 2), coinfezione del vaccino con il ceppo di IBV di campo, nei confronti del quale la protezione è spesso parziale, 3) somiglianza casuale fra ceppi di campo e vaccinale, 4) reversione a virulenza del vaccino o selezione di sottopopolazioni vaccinali con diversa virulenza. È chiaro che ciascuno di questi scenari ha importanti ricadute pratiche sulla gestione dell’allevamento e sullo sviluppo e somministrazione dei vaccini. Sfortunatamente, la discriminazione fra ceppi di campo e vaccinali rappresenta ad oggi un problema largamente irrisolto.
La recente espansione della V ariante2 (lineage GI-23) in diversi paesi africani, asiatici, europei e più recentemente americani, ha determinato l’introduzione del vaccino omologo in molti stati [6, 7]. Questa scelta, a prescindere dai benefici pratici, ha ostacolato lo studio della reale presenza e prevalenza del ceppo di campo, nonché la stima delle conseguenze cliniche ed economiche. La routinaria attività diagnostica si focalizza tipicamente sul sequenziamento di parte del gene S1, regione determinante per il tropismo, la virulenza e l’immunogenicità del virus. Questo gene si caratterizza inoltre per una maggiore variabilità genetica che permette una migliore risoluzione nella caratterizzazione dei ceppi [8]. Nonostante ciò, sovente anche questa regione risulta inadeguata per la discriminazione fra ceppi vaccinali e di campo, non essendo stati definiti dei chiari cut-off  [9]. In presenza di un numero limitato di mutazioni, diverse spiegazioni possono essere chiamate in causa: errori nel sequenziamento, evoluzione del vaccino in campo, selezione di sottopopolazioni vaccinali preesistenti, riscontro di ceppi di campo simili al vaccino, ecc. Sulla base di quanto detto, due tematiche appaiono particolarmente pressanti per i medici veterinari: la differenziazione fra ceppi di campo e vaccinali e la comprensione se il riscontro di ceppi di origine vaccinale in presenza di segni clinici sia riconducibile a forme di reversione a virulenza o rappresenti un riscontro incidentale.
L’identificazione di sottopopolazioni vaccinali e la loro caratterizzazione può essere di grande utilità per capire se alcune di queste siano più prone alla replicazione in vivo e possano emergere quindi come agenti di outbreak clinici. Inoltre, il confronto con sequenze ottenute in campo potrebbe contribuire alla comprensione dell’impatto della variabilità intra-vaccino nel complicarne la differenziazione rispetto ai ceppi di campo e potenzialmente alla definizione di mutazioni marker. A tal fine, tre lotti di vaccino basato su V ariante2 sono stati sequenziati tramite Next Generation Sequencing (NGS) per valutare la presenza e struttura di sottopopolazioni virali. Inoltre, le sequenze ottenute sono state confrontate con quelle ottenute da ceppi campionati in diversi allevamenti europei, per i quali lo status vaccinale fosse noto.

13 Settembre 2023

2022 – AGGIORNAMENTO EPIDEMIOLOGICO SUL VIRUS DELLA BURSITE INFETTIVA IN EUROPA OCCIDENTALE

La bursite infettiva (IBD), anche nota come malattia di Gumboro, è una patologia virale immunosoppressiva dal notevole impatto sanitario ed economico sull’avicoltura mondiale, ascrivibile sia a focolai caratterizzati da sintomi aspecifici e elevata mortalità che alle conseguenze dell’immunosoppressione, come l’aumento dell’incidenza di infezioni secondarie e di fallimenti vaccinali e il peggioramento dell’indice di conversione alimentare (Alkie & Rautenschlein, 2016). L’agente eziologico della malattia è noto come virus della bursite infettiva (IBDV) e appartiene al genere Avibirnavirus della famiglia Birnaviridae. IBDV possiede un genoma a RNA a doppio filamento composto di due segmenti, denominati A e B. Il segmento A codifica per la proteina capsidica (VP2), una proteina scaffold (VP3), una proteasi (VP4) e una proteina non strutturale (VP5), mentre il segmento B codifica per la RNA polimerasi RNA-dipendente (VP1) (Maraver et al., 2003). Tra le proteine virali, la VP2 risulta essere quella più studiata per via del suo ruolo di principale determinante antigenico e patogenetico (Brandt et al., 2001). Ciononostante, è stato dimostrato come anche la VP1 concorra alla determinazione della patogenicità (Escaffre et al., 2013). Per questo motivo, e per via della rilevanza dei fenomeni di riassortimento per l’evoluzione di IBDV, diverse combinazioni dei due segmenti possono esitare in significative differenze patobiologiche (He et al., 2016; Chen et al., 2018).
Sono noti due sierotipi di IBDV, denominati 1 e 2. Il sierotipo 1 è l’unico a causare la malattia ed è tradizionalmente suddiviso sulla base di differenze antigeniche e patogenetiche. I tre sottogruppi storicamente considerati più rilevanti sono rappresentati dai ceppi classici, i primi ad essere identificati e responsabili della sintomatologia comunemente attribuita ad IBD; i ceppi varianti, caratterizzati da un diverso profilo antigenico e associati a infezioni a carattere subclinico accompagnate da una marcata atrofia della borsa di Fabrizio; e i ceppi very virulent, che al contrario risultano antigenicamente affini a quelli classici, ma marcatamente più virulenti (Eterradossi & Saif, 2020). Al giorno d’oggi, tuttavia, questa classificazione appare sempre più obsoleta e inadeguata a descrivere in modo esaustivo la crescente variabilità esistente tra i diversi ceppi di IBDV (Jackwood et al., 2018).
Essa risulta inoltre di difficile applicazione per via dell’ampio ricorso, nell’ambito della diagnosi routinaria di IBD, a metodiche di biologia molecolare, che non permettono una valutazione diretta né della patogenicità né dell’antigenicità. Ciò ha portato alla necessità di dotarsi di sistemi di classificazione più standardizzati e basati sulla filogenesi. Al momento ne sono disponibili tre: il primo, proposto da Michel & Jackwood (2017), prende in considerazione una porzione del gene della VP2, dividendo il sierotipo 1 in 7 diversi genogruppi. I rimanenti due schemi di classificazione, proposti da Islam et al. (2021) e Wang et al. (2021), considerano anche una parte del gene della VP1, permettendo l’identificazione di eventi di riassortimento e riconoscendo, con ottima ma non completa sovrapposizione, 9 genogruppi a livello di segmento A e 5 a livello di segmento B. Combinando le due classificazioni in genogruppi, si ottiene inoltre una classificazione composita in genotipi. Successivamente alla proposta di questi tre sistemi di classificazione, un nuovo gruppo di ceppi di IBDV con peculiarità uniche a livello di gene della VP2 è stato identificato in Portogallo (Legnardi et al., 2022), aumentando quindi il computo totale di genogruppi/genotipi.
Per via dell’elevata contagiosità e resistenza a livello ambientale di IBDV, il controllo della malattia non può prescindere da rigorose pratiche di biosicurezza e dall’applicazione della vaccinazione. Le strategie vaccinali ad oggi disponibili includono un’ampia gamma di vaccini vivi attenuati, basati su ceppi a diversa virulenza residua, vaccini vettorizzati e ad immunocomplessi, i quali possono differire per vie e tempistiche di somministrazione (Muniz et al., 2018). Indipendentemente dalla strategia adottata, il controllo di IBDV dovrebbe comunque prevedere l’allestimento di un solido sistema di monitoraggio che consenta di identificare, caratterizzare e combattere efficacemente eventuali minacce epidemiologiche. Coerentemente con questi principi, questo studio si pone come obiettivo quello di fornire, utilizzando gli strumenti offerti dai moderni sistemi di classificazione, un aggiornamento epidemiologico sulla situazione di IBDV in Europa occidentale.

13 Settembre 2023

2022 – RUOLO DELL’INCUBATOIO NELL’EPIDEMIOLOGIA DELLA RUNTING-STUNTING SYNDROME (RSS) E CARATTERIZZAZIONE GENETICA DI A VIAN NEPHRITIS VIRUS (ANV)

La sindrome da malassorbimento o Runting-Stunting Syndrome (RSS) è una patologia che provoca gravi perdite economiche nel settore dell’avicoltura globale, legate alla scarsa conversione alimentare, alla minore uniformità del gruppo e conseguente scarto dei polli affetti al momento della macellazione. Si tratta di una patologia emergente che negli ultimi vent’anni ha acquisito crescente interesse (Smyth et al., 2009).
Si tratta di una sindrome multifattoriale principalmente a eziologia virale multipla che colpisce il pollo da carne nelle prime due settimane di vita, determinando ritardo di accrescimento, feci diarroiche, problemi scheletrici e anomalie del piumaggio (Smyth, 2008).
Un ruolo importante nella RSS è svolto dall’Avian Nephritis Virus (ANV) e dal Chicken Astrovirus (CAstV), membri della famiglia Astroviridae e in particolare del genere Avastrovirus 2. Sono state infatti riscontrate cariche virali più elevate in campioni di animali affetti rispetto a campioni di soggetti sani. È stato inoltre dimostrato essere responsabili dei problemi di crescita, di enterite e lesioni renali nei pulcini (Devaney et al., 2016).
Recentemente, gli astrovirus degli avicoli sono stati anche associati a problematiche riscontrate in incubatoio, con riduzione della schiudibilità, morte embrionale tardiva e nascita di pulcini deboli (Smyth et al., 2013; Sajewicz-Krukowsk et al., 2016). Tuttavia, non esistono al momento studi che valutino il ruolo dell’incubatoio nella diffusione di questi virus.
Gli astrovirus degli avicoli hanno una distribuzione mondiale e le infezioni sono molto comuni. Nel Regno Unito si segnala una prevalenza del 93 – 96% in allevamenti di polli da carne con problemi di crescita ritardata (Todd et al., 2009). A tal proposito Smyth et al. (2010), tramite l’ausilio della real time RT-PCR, hanno rilevato CAstV e ANV rispettivamente nell’81% e nel 67% dei casi, a partire da campioni di contenuto intestinale prelevati in due gruppi di polli da 0 a 35 giorni con prestazioni sotto la media.
In Italia la situazione non sembra essere diversa. Sono riportati casi, riconducibili ad astrovirus, di enterite e aumento della mortalità in soggetti giovani di pollo, tacchino e faraona nonché di epatite in anatroccoli, maggiormente segnalati in allevamenti intensivi (Canelli et al., 2012).
Questo studio si prefigge l’obbiettivo di quantificare la carica virale dei virus oggetto di studio, vista la loro presenza di tipo ubiquitario sul territorio e di valutare il ruolo dell’incubatoio nell’epidemiologia della RSS in Piemonte.

13 Settembre 2023

2022 – IL LATO OSCURO DELLA QUALITÀ: INTOSSICAZIONE DA MICOTOSSINE IN UN ALLEVAMENTO PER LA PRODUZIONE DI UOVA ARRICCHITE IN OMEGA-3

Le micotossine sono prodotti secondari del metabolismo di molte specie di funghi, tra cui quelli appartenenti ai generi Aspergillus, Penicillium e Fusarium [1]. Essi sono contaminanti naturali di granaglie, frutta secca e foraggi [2], ma il loro sviluppo è favorito da temperature tra i 20 e i 35 °C (a seconda delle specie) e valori di attività dell’acqua (a w) solitamente superiori a 0,92, con differenze specie-specifiche [3].
Gli animali da reddito destinati alla produzione di alimenti assumono le micotossine attraverso il mangime contaminato o preparato con materie prime contaminate. Quindi le micotossine, che sono lipofile, si accumulano nei tessuti e vengono escrete con il latte e le uova [2, 4]. Se per gli animali è possibile pensare a forme acute di intossicazione, in realtà sempre più rare, il consumo di alimenti contaminati porta nel tempo a fenomeni tossici di tipo cronico che possono coinvolgere anche l’uomo. Non è certamente di importanza secondaria la potenziale cancerogenicità delle micotossine [5], le quali, peraltro, non hanno tutte lo stesso grado di tossicità. Le aflatossine (AF), prodotte principalmente da Aspergillus flavus e Aspergillus parasiticus, sono tra le più pericolose. Infatti, è nota un’importante azione epatotossica a cui si sommano effetti cronici immunosoppressivi che favoriscono l’insorgenza di infezioni secondarie [6].
Inoltre, le aflatossine B1 (AFB1) ed M1 (AFM1) sono state rispettivamente inserite tra i carcinogeni di tipo I e 2B dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul cancro (IARC) [7]. Gli uccelli domestici sono particolarmente sensibili alle AF, che causano steatosi epatica, disturbi renali, deformità ossee e immunosoppressione, oltre a riduzione dell’accrescimento e riduzione della qualità delle uova deposte [4].
Le ocratossine (OT) sono invece considerate meno tossiche delle AF ma non per questo destano minore preoccupazione. In particolare, l’ocratossina A (OTA) è considerata nefrotossica, epatotossica, neurotossica, immunotossica ed è stata inserita tra i carcinogeni di classe 2B. Il pollame è particolarmente sensibile anche all’OTA, che causa anemia, alta concentrazione di urati, diarrea, calo di deposizione e riduzione della qualità delle uova [8]. L’elevata lipofilia dell’OTA, insieme con l’alta affinità per le proteine sieriche, ne determina il bioaccumulo nei tessuti, raggiungendo concentrazioni non compatibili con il consumo umano [9].
Per ridurre i rischi del consumatore e tutelare la salute degli animali da reddito, sono stati stabiliti dei limiti ben precisi per le AF e le OT nei mangimi destinati all’alimentazione degli animali. In particolare, il regolamento EU 574/2011 ha stabilito in 20 mg/kg la concentrazione massima di AFB1 nei mangimi per il pollame, e in 5 mg/kg quella nei mangimi per pulcini e pollastre. La concentrazione limite per l’OTA è stata invece stabilita dalle raccomandazioni UE 576/2006 in 100 mg/kg.
Alla luce di quanto sopra descritto, questo studio riporta le cause e gli effetti di un episodio di intossicazione da AFB1 e OTA osservato in un allevamento di galline ovaiole allevate senza antibiotici per la produzione di uova arricchite in acidi grassi v-3 (O3).
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